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Tumore della prostata: perché sempre più pazienti scelgono di evitare il trattamento.

Apparentemente negli ultimi tempi il trattamento di pazienti affetti da un tumore della prostata in stato precoce ha subito un cambiamento profondo.

Fino a 5 anni fa quasi tutti questi pazienti optavano per la chirurgia o per la radioterapia; al giorno d’oggi quasi la metà di questi preferisce invece non effettuare alcun trattamento. Questo approccio ha un nome ed è chiamato “sorveglianza attiva”. In altre parole, il paziente non esegue nessuna terapia ma si sottopone ad un monitoraggio regolare per valutare l’evoluzione o meno della neoplasia.

Fino a qualche anno fa la “sorveglianza attiva” era una scelta che riguardava solo il 10-15 % di pazienti affetti da neoplasia della prostata in fase iniziale. Attualmente, come rivelano i dati raccolti da diverse fonti indipendenti americane, negli Stati Uniti la percentuale di questi pazienti che opta per l’approccio di “sorveglianza attiva” raggiunge quasi il 50%. Si tratta di una scelta che negli anni precedenti era consigliata solo in alcuni centri medici specialistici e non negli studi privati di urologia, a cui si rivolge la maggior parte dei pazienti. Nel 2011, il National Institute of Health ha organizzato una Conferenza di Consenso su questo argomento. Secondo le conclusioni raggiunte, la sorveglianza attiva sarebbe consigliabile per i pazienti affetti da tumori di piccolo volume e apparentemente innocui. La validità di questo approccio è stata di recente confermata dalla linee guida pubblicate dalla Società Americana di Oncologia Clinica (http://meetinglibrary.asco.org/content/159244-176).

Apparentemente negli ultimi tempi il trattamento di pazienti affetti da un tumore della prostata in stato precoce ha subito un cambiamento profondo.

Fino a 5 anni fa quasi tutti questi pazienti optavano per la chirurgia o per la radioterapia; al giorno d’oggi quasi la metà di questi preferisce invece non effettuare alcun trattamento. Questo approccio ha un nome ed è chiamato “sorveglianza attiva”. In altre parole, il paziente non esegue nessuna terapia ma si sottopone ad un monitoraggio regolare per valutare l’evoluzione o meno della neoplasia.

I dati che rivelano quanto la “sorveglianza attiva” stia diventando l’opzione prevalente provengono da diversi registri nazionali americani: il registro dell’Associazione di Urologia Americana (http://www.ascopost.com/News/27641) che ha raccolto informazioni su circa 15.000 pazienti trattati privatamente da urologi fino al 2015; un altro registro nazionale americano che raccoglie dati su pazienti trattati da urologi in regime per lo più privato; il registro del Michigan (http://www.uofmhealth.org/health-library/uh1698) che riguarda anch’esso i trattamenti effettuati in regime privato.

Secondo l’urologo Matthew R. Cooperberg, epidemiologo presso l’Università di San Francisco e autore nel 2014 di un articolo sulla sorveglianza attiva (http://jco.ascopubs.org/content/33/3/238.full) “le cose stanno cambiando molto, ma molto rapidamente”.

La metà dei pazienti con diagnosi recente di carcinoma prostatico presentano una neoplasia a basso rischio che dal punto di vista istologico indica un valore inferiore o uguale a 6 nella scala di Gleason.

In questi pazienti, il rischio di morte nei 10 anni successivi dovuto alla neoplasia della prostata è inferiore all’1%, sia se scelgono un trattamento aggressivo, sia se scelgono la sorveglianza attiva.

In realtà, il problema è più complesso perché non è ancora chiaro quali pazienti con una neoplasia della prostata con Gleason uguale o minore di 6 debbano effettuare la sorveglianza attiva. Infatti la scelta di quest’ultima opzione risulta semplice per pazienti anziani con un’aspettativa di vita di 10-15 anni, perché la maggior parte dei tumori della prostata a questo stadio cresce molto lentamente. Ma qual è la scelta giusta per quanto riguarda gli uomini che hanno 50 o 60-65 anni ?

In questo caso i pazienti dovrebbero essere sottoposti a biopsie regolari per lunghi periodi di tempo in modo da permettere al medico di individuare eventuali segni di crescita della malattia. E biopsie ripetute possono sia essere la causa di infezioni, talvolta gravi, sia dare falsi negativi, cioè non individuare le cellule tumorali più aggressive in quanto i campioni prelevati con la biopsia possono essere molto piccoli.

Quindi il problema per gli uomini più giovani permane: da un lato la speranza di vita più lunga aumenta la possibilità che il tumore possa crescere e diventare più aggressivo; dall’altro, sono sopratutto i pazienti giovani a voler evitare le principali complicazioni, come l’impotenza e l’incontinenza, dovute a trattamenti radicali come la chirurgia e la radioterapia.

Il dibattito è aperto.

C’è chi sostiene, come il dottor William Catalona (http://www.drcatalona.com/) della Northwestern University Feinberg School of Medicine, che la sorveglianza attiva possa in alcuni casi trasformarsi in un tragico errore: alcuni pazienti giovani potrebbero scoprire troppo tardi che il loro tumore è diventato incurabile.

Secondo altri medici, tra i quali il dottor Cooperberg, questo tipo di tumore della prostata a basso rischio necessita di una nuova terminologia che indichi la crescita lenta e la natura di origine benigna. Si dovrebbe stabilire una nuova terminologia che non indichi la patologia come normale ma che non utilizzi necessariamente la parola cancro. Tuttavia, – come afferma J. E. Bekelman, Professore di Oncologia presso l’Università della Pennsylvania – un simile cambio di terminologia non è così facile da accettare. Infatti, a suo parere, i pazienti affetti da questo tipo di tumore, anche se la loro prognosi è eccellente, sono pur sempre affetti da un tumore e devono essere seguiti con estrema attenzione. Altrimenti c’è il rischio che di fronte a una terminologia che non indichi la natura comunque evolutiva della neoplasia, questi pazienti possano non prendere sul serio la necessità di effettuare biopsie regolari ed altri test. Per questo motivo, il dottor Epstein ed altri suoi colleghi della John Hopkins hanno proposto un sistema di classificazione che indichi che i tumori con un Gleason uguale o inferiore a 6 sono sì meno aggressivi ma non necessariamente benigni. Nel sistema attuale della scala Gleason, che individua l’aggressività della malattia in base all’aspetto delle cellule prostatiche, il valore 6 è il punteggio più basso (anche se la scala di Gleason ufficialmente va da 2 a 10) ma molti pazienti con un valore intorno al 6 associano questo valore ad una prognosi peggiore. Secondo il nuovo sistema approvato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità i pazienti con valore 6 nella scala di Gleason saranno inclusi nel gruppo 1 di una scala che va da 1 a 5.

La sorveglianza attiva si scontra anche con un altro problema: i risultati non definitivi di un follow-up a lungo termine. Infatti servirebbero 10-15 anni di controlli, mentre la tendenza a ricorrere alla sorveglianza attiva è iniziata intorno al 2000, molto lentamente e con un numero ridotto di pazienti. Il dottor. Wein (http://www.uphs.upenn.edu/surgery/clinical/faculty/wein_alan.html) consiglia la sorveglianza attiva per la maggior parte degli uomini con tumori a basso rischio che dovrebbero comunque sottoporsi ad una seconda biopsia entro 1 anno e successivamente effettuare biopsie regolare ogni 12-24 mesi e ripetere regolarmente il test del PSA. Secondo il dottor Wein è giusto riferire al paziente che in qualche modo questa scelta può rappresentare una “scommessa” e che c’è sempre il rischio che ad un certo punto la malattia possa progredire e per tale motivo è giusto effettuare una biopsia di controllo.

L’ultimo articolo che il New York Times dedica all’argomento presenta un caso clinico classico: di fronte a un alto livello di PSA, un paziente di 55 anni si è sottoposto ad una biopsia che ha evidenziato un tumore con valore 6 nella scala di Gleason. Dopo aver consultato diversi urologi aveva deciso di effettuare un trattamento aggressivo malgrado la sua giovane età. È solo dopo essersi informato più approfonditamente sul tumore della prostata e aver parlato con altri uomini che avevano seguito diverse modalità di trattamento, che ha finito col scegliere un percorso di sorveglianza attiva. Nei mesi successivi, ha ripetuto 2 volte il test del PSA: quest’ultimo è tornato ad essere nella norma ed è probabile che l’aumento precedentemente osservato fosse dovuto ad una possibile infezione della prostata.

In un altro caso, un paziente di circa 57 anni con una diagnosi di tumore della prostata con valore 6 nella scala di Gleason, ha optato per un percorso differente: nessun medico gli ha parlato della sorveglianza attiva e, spaventato dalla diagnosi, ha preferito non convivere con la malattia e si è immediatamente sottoposto ad intervento chirurgico. Malgrado l’operazione sia andata bene, le sue conseguenze hanno obbligato il paziente a prendere particolari accorgimenti per controllare per quasi un anno l’incontinenza.

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