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Gli errori in medicina

Riprendiamo con questa traduzione la pubblicazione di articoli tradotti dall'Inglese presi da siti stranieri.

 

Questo articolo è preso dal sito www.ted.com e si intitola :

 

Brian Goldman:
Doctors make mistakes. Can we talk about that?
TEDxToronto 2010 ·  Nov 2011

 

Penso che dobbiamo fare qualcosa per un aspetto della cultura medica che deve cambiare. E penso che ad iniziare debba essere un medico, cioè io. Forse sono stato in giro abbastanza a lungo da potermi permettere di perdere un po' del mio falso prestigio per farlo.

Prima di arrivare alla sostanza del mio discorso, cominciamo con un po' di baseball. Ehi, perché no? Siamo quasi alla fine, ci stiamo avvicinando alle World Series. A tutti noi piace il baseball, vero? Il baseball è pieno di straordinarie statistiche. E ce ne sono a centinaia. "L'arte di vincere" sta per uscire, e non tratta d'altro che di statistiche e dell'uso delle statistiche per costruire una grande squadra di baseball.

 Mi concentrerò su una statistica di cui spero abbiate sentito parlare. Si chiama "Media battuta". Quindi parliamo di un 300, un battitore che batte a 300. Ciò significa che le battute di quel giocatore sono state valide tre volte su 10 che è stato in battuta validamente. Significa che ha spedito la palla in campo esterno, che la palla è caduta, senza essere presa, e chiunque abbia tentato di lanciarla in prima base non è arrivato in tempo e il runner era salvo. Tre volte su 10. Sapete come chiamano un battitore da 300 colpi nella Major League del baseball? Bravo, molto bravo, probabilmente un fuori classe. Sapete come chiamano un battitore da 400 colpi? Tra parentesi è qualcuno che fa battuta valida quattro volte su 10. Leggendario -- come il Leggendario Ted Williams - l'ultimo giocatore di baseball della Major League a fare più di 400 battute in una stagione regolare.

Ora torniamo alla mia esperienza nel mondo della medicina dove mi sento più a mio agio o forse un po' meno a mio agio dopo ciò di cui vi sto per parlare. Immaginate di avere un'appendicite e venite mandati da un chirurgo che batte a 400 sull'appendicectomia. Non convince, vero? Ora immaginate di vivere in una zona remota e che uno dei vostri cari abbia due blocchi coronarici e il medico di famiglia indirizza il vostro caro a un cardiologo che batte a 200 nelle angioplastiche. Ma, ma, sapete cosa? Sta migliorando molto quest'anno. È sulla strada buona. E sta raggiungendo i 257. In qualche modo non convince.

Ma vi faccio una domanda. Quale credete debba essere la media di battuta per un cardiochirurgo o una infermiera professionista o un chirurgo ortopedico, un'ostetrica, un paramedico? 1000, molto bene. La verità è che nessuno sa in medicinaquale media di battuta debba avere un buon chirurgo, un medico o un paramedico. Quello che però facciamo è spedirli tutti, me incluso, là fuori con questo avvertimento: sii perfetto. Non commettere mai e poi mai un solo errore però ai dettagli, a come ci riuscirai, pensaci tu.

E questo è il messaggio che ho assorbito a scuola di medicina. Ero uno studente ossessivo compulsivo. Al liceo, un compagno di scuola una volta ha detto che Brian Goldman avrebbe studiato perfino per un esame del sangue. E così ho fatto. E ho studiato nella mia piccola soffitta della residenza infermieri al Toronto General Hospital, non lontano da qui. E ho memorizzato ogni cosa.Ho memorizzato al corso di anatomia le origini e gli sforzi di ogni muscolo, ogni ramo di ogni arteria che nasce dall'aorta, le diagnosi differenziali comuni e rare. Conoscevo perfino le diagnosi differenziali per classificare l'acidosi tubulare renale. E per tutto il tempo, accumulavo sempre più conoscenze.

E ho fatto bene, mi sono laureato con lode. E sono uscito dalla scuola di medicina con l'impressione che se avessi memorizzato tutto e saputo tutto, o il più possibile quasi tutto quel che è possibile sapere, ciò mi avrebbe reso immune da qualunque errore.E ha funzionato per un po', finché non ho conosciuto la Signora Drucker.

Ero medico interno all'ospedale universitario qui a Toronto quando la Signora Drucker fu portata al pronto soccorsodell'ospedale dove lavoravo. All'epoca ero stato assegnato al servizio di cardiologia a rotazione. Ed era compito mio, quando il pronto soccorso richiedeva un consulto cardiologico, visitare il paziente al pronto soccorso e riportare al mio superiore. E visitai la Signora Drucker, era senza fiato. E mentre la ascoltavo, faceva un sibilo. E mentre la auscultavo con lo stetoscopio, sentivo dei suoni gracchianti da entrambe le parti che mi dicevano che aveva un'insufficienza cardiaca. È una condizione in cui il cuore si arresta, e invece di essere in grado di pompare sangue, parte del sangue ritorna nei polmoni, i polmoni si riempiono di sangue, e per questo manca il respiro.

Non era una diagnosi difficile da formulare. L'ho formulata e ho dato istruzione per il trattamento. Le ho dato l'aspirina. Le ho dato farmaci per attenuare la tensione del cuore. Le ho dato farmaci che chiamiamo diuretici, per farle urinare l'eccesso di liquidi. E nell'ora e mezzo o due successive, ha cominciato a sentirsi meglio. E mi sono sentito bene. E qui ho commesso il mio primo errore; l'ho dimessa.

In realtà, ne ho commessi altri due. L'ho dimessa senza parlarne con il mio supervisore. Non ho alzato il telefono e fatto quello che avrei dovuto, ossia chiamare il mio supervisore e metterlo al corrente perché potesse avere la possibilità di visitarla lui stesso. E lui la conosceva, sarebbe stato in grado di dare maggiori informazioni su di lei. Forse l'ho fatto per una buona ragione.Forse non volevo essere un residente che necessita troppe attenzioni. Forse volevo avere successo ed essere in grado di prendermi le responsabilità di fare quello che ho fatto ed essere in grado di prendermi cura dei pazienti del mio supervisoresenza neanche il bisogno di contattarlo.

Il secondo errore è stato anche peggiore. Dimettendola, ho trascurato una vocina dentro di me che cercava di dirmi, "Goldman, non è una buona idea. Non farlo." In effetti, mancavo talmente di fiducia in me stesso da chiedere all'infermiera chi si occupava della Signora Drucker, "Pensa che vada bene se la mandiamo a casa? "L'infermiera ci ha pensato su e mi ha detto con certezza, "Si, penso che starà bene". Lo ricordo come fosse ieri.

Quindi ho firmato i documenti per la dimissione, è arrivata un'ambulanza, i paramedici sono venuti per portarla a casa. E sono tornato al mio lavoro in reparto. Per tutto il resto del giorno, quel pomeriggio, una strana sensazione mi attanagliava lo stomaco. Ma sono andato avanti a lavorare. E alla fine della giornata, mi sono preparato per lasciare l'ospedale e mi sono avviato verso il parcheggio per prendere la macchina e tornare a casa quando ho fatto una cosa che di solito non faccio. Sono passato al pronto soccorso prima di tornare a casa.

Ed è lì che un'altra infermiera, non l'infermiera che si occupava della Signora Drucker, un'altra infermiera, mi ha detto tre parole che sono le tre parole che la maggior parte dei medici del pronto soccorso temono. Anche altri in medicina le temono,ma c'è qualcosa di particolare nella medicina d'urgenza perché visitiamo i pazienti così di sfuggita. Le tre parole sono: Lei si ricorda? Si ricorda quel paziente che ha mandato a casa?" mi ha chiesto l'altra infermiera. "Beh, è tornata"; proprio con quel tono di voce.

E certo che era tornata. Era tornata e in fin di vita. Circa un'ora dopo essere arrivata a casa, dopo che l'avevo mandata a casa,aveva avuto un collasso, la famiglia aveva chiamato il 911 e i paramedici l'avevano riportata al pronto soccorso con una pressione sanguigna di 50 il che significa uno shock grave. Respirava a malapena ed era livida. E il personale del pronto soccorso ha fatto tutto il possibile. Le hanno dato farmaci per alzare la pressione. Le hanno messo un respiratore.

Ed ero sotto shock e distrutto. Mi sentivo sulle montagne russe, perché dopo averla stabilizzata, l'hanno trasferita in terapia intensiva, e ho continuato a sperare che si riprendesse. E nei due o tre giorni successivi, era chiaro che non si sarebbe mai più risvegliata. Aveva danni cerebrali irreversibili. La famiglia si è riunita. E nel corso degli otto o nove giorni successivi, si sono rassegnati di fronte a quello che stava accadendo. Il nono giorno l'hanno lasciata andare -- La Signora Drucker, una moglie, una madre e una nonna.

Dicono che non si scordano mai i nomi di chi muore. E quella è la prima volta che l'ho sperimentato. Nelle settimane successive,mi sono sentito in colpa e ho sperimentato per la prima volta quella malsana vergogna che risiede nella nostra cultura medica --mi sono sentito solo, isolato, non sentivo quella vergogna genuina che si sente,perché non se ne può parlare con i colleghi.Sapete quella vergogna positiva, quando si tradisce un segreto che il migliore amico vi ha fatto promettere di non rivelare e poi venite beccati e il vostro migliore amico vi affronta con terribili discussioni, ma alla fine quella brutta sensazione vi guida e promettete di non rifare mai più lo stesso errore. E rimediate e non fate mai più lo stesso errore. È quel tipo di vergogna che insegna.

La vergogna malsana di cui parlo è di quelle che vi fa stare male dentro. È quella che vi dice, non che quello che avete fatto sia sbagliato, ma che voi siete cattivi. Quello era il sentimento che provavo. E non era per colpa del mio supervisore; era un tesoro. Ha parlato alla famiglia, e sono certo che ha sminuito le cose in modo che non venissi citato in giudizio. E ho continuato a farmi queste domande. Perché non ho chiesto al mio supervisore? Perché l'ho mandata a casa? E nei momenti peggiori: Perché ho fatto un errore così stupido? Perché ho fatto medicina?

 Pian piano, ne sono venuto fuori. Ho cominciato a sentirmi meglio. E in un giorno nuvoloso, vidi uno squarcio tra le nuvole e il sole ha fatto capolino e mi sono chiesto,se potessi tornare a sentirmi meglio. E ho fatto un patto con me stesso: se raddoppio gli sforzi per essere perfetto e non commetto mai più errori fa' zittire le voci. Ed è stato così. E sono tornato a lavorare. E a quel punto è successo di nuovo.

 Due anni dopo ero supervisore al pronto soccorso in un ospedale a nord di Toronto, ho visitato un uomo di 25 anni con il mal di gola. Era affollato, avevo fretta. Continuava a indicare qui. Gli ho guardato la gola, era un po' rosa. Gli ho prescritto della pennicillina e l'ho mandato via. E anche mentre stava uscendo, continuava a mostrarmi la gola.

 E due giorni dopo sono tornato per il mio turno al pronto soccorso e lì il mio capo mi ha chiesto di poter parlare in disparte nel suo ufficio. E ha pronunciato le tre parole:Lei si ricorda? "Si ricorda quel paziente che ha visitato con il mal di gola?" Beh, si è scoperto che non aveva un'infezione alla gola. Aveva una malattia potenzialmente mortale chiamata epiglottite. La trovate su Google, è un'infezione, non della gola, ma delle vie respiratorie superiori, e può provocare la chiusura delle vie respiratorie. E fortunatamente non è morto. È stato messo sotto antibiotici per endovenosa e si è ripreso qualche giorno dopo. E ho attraversato gli stessi momenti di vergogna e recriminazione, mi sono sentito espiato e sono tornato a lavorare, finché non è successo ancora, e ancora, e ancora.

 Due volte nello stesso turno al pronto soccorso, non ho riconosciuto un'appendicite. E ce ne vuole, specialmente lavorando in un ospedale in cui all'epoca si visitavano 14 persone a notte. In entrambi i casi, non li ho mandati a casa e non credo ci fosse stata nessuna mancanza nel trattamento. Uno pensavo che fosse un calcolo renale. Ho prescritto una radiografia dei reni. Quando si è scoperto che tutto era in ordine,rivalutando il paziente un mio collega ha notato una fragilità nel quadrante inferiore destro e ha chiamato il chirurgo. L'altro aveva la diarrea. Ho prescritto una reidratazione tramite fluidi e ho chiesto al mio collega di rivalutare il caso. E lo ha fatto ,e quando ha notato una certa fragilità nel quadrante inferiore destro, ha chiamato il chirurgo. In entrambi i casi, sono intervenuti chirurgicamente e tutto è andato bene. Ma ogni volta, mi tormentavo, non mi davo pace.

 E vorrei potervi dire che gli errori peggiori li ho fatti nei primi cinque anni di professione come dicono molti miei colleghi, ma sono tutte balle. Alcune sciocchezze le ho commesse negli ultimi cinque anni. Solo, mortificato e privo di sostegno. Ecco il problema: Se non posso liberarmi e parlare dei miei errori, se non riesco a sentire la vocina che mi dice cosa è veramente successo, come posso condividerlo con i colleghi? Come posso insegnare loro quello che ho fatto in modo che non facciano la stessa cosa? Se dovessi entrare in una stanza -- come ora, non avrei idea di quello che potete pensare di me.

 Quando è stata l'ultima volta che avete sentito qualcuno raccontare di fallimento, dopo fallimento, dopo fallimento? Certo, andando ad una festa potreste sentir parlare di qualche altro medico, ma non sentirete qualcuno che parla dei propri errori. Se dovessi entrare in una stanza piena di miei colleghi e dovessi chiedere loro supporto e cominciare a raccontare quello che vi ho appena detto, probabilmente comincerebbero a sentirsi a disagio prima che io cominci a raccontare la seconda storia, qualcuno tirerebbe fuori una barzelletta, cambierebbero argomento e andremmo avanti. E infatti, se io sapessi e i miei colleghi sapesseroche uno dei miei colleghi ortopedici ha amputato la gamba sbagliata nel mio ospedale, credetemi, avrei difficoltà a stabilire un contatto visivo con quella persona.

 Questo è il sistema che abbiamo. È la completa negazione degli errori. È un sistema in cui ci sono due tipi di posizioni -- coloro che fanno errori e coloro che non li fanno,coloro che non sopportano la privazione di sonno e coloro che la sopportano, coloro che hanno pessimi risultati e coloro che hanno ottimi risultati. È quasi una reazione ideologica, come gli anticorpi che iniziano ad attaccare una persona. E abbiamo questa idea che se allontaniamo dalla medicina coloro che fanno errori, quello che resterà sarà un sistema sicuro.

 Ma ci sono due problemi. Nei miei 20 anni circa di trasmissioni e giornalismo medico, ho fatto uno studio personale sulle negligenze professionali e gli errori medici per imparare tutto il possibile, da uno dei primi articoli che ho scritto per il Toronto Star alla mia trasmissione "Camice Bianco, Arte Oscura." E quello che ho imparato è che gli errori sono assolutamente ovunque.Lavoriamo in un sistema dove gli errori capitano tutti i giorni, dove una cura su 10 o è stata prescritta male in ospedale oppure è stata prescritta con un dosaggio sbagliato, dove le infezioni contratte in ospedale diventano sempre più numerose, devastanti e mortali. In questo Paese, muoiono quasi 24 000 Canadesi per errori medici prevenibili. Negli Stati Uniti, l'Istituto di Medicina ne conta 100 000. In entrambi i casi, si tratta di stime in difetto, perché non stiamo andando veramente a fondo del problemacome dovremmo.

 Ed ecco il punto. In un sistema ospedaliero dove le conoscenze mediche raddoppiano ogni due o tre anni, non ci stiamo più dietro. La privazione di sonno è completamente diffusa. Non riusciamo a sbarazzarcene. Abbiamo la nostra trappola cognitiva,che mi permette di raccogliere la perfetta anamnesi del paziente con dolore al petto. Ora, prendete lo stesso paziente con dolore al petto, vedetelo più sudato e loquace e mettete un po' d’alcol nel fiato, e improvvisamente la mia anamnesi si riempie di disprezzo. Non raccolgo la stessa anamnesi. Non sono un robot; non faccio le cose sempre nello stesso modo. E i miei pazienti non sono automobili; non mi raccontano i sintomi sempre nello stesso modo. Considerando tutto questo, gli errori sono inevitabili. Se prendete il sistema, così come mi è stato insegnato, e vi sbarazzate di tutti i professionisti inclini all'errore, beh, non rimarrà più nessuno.

E sapete quella questione della gente che non vuole parlare dei casi peggiori? Nel mio spettacolo, in "Camice Bianco, Arte Oscura", ho l'abitudine di dire, "Ecco il mio peggiore errore", Vorrei dire a tutti dai paramedici al responsabile di cardiochirurgia"Ecco il mio peggiore errore," bla, bla, bla, bla, bla, bla, "E il tuo?" e puntare il microfono verso di loro. E le loro pupille si dilaterebbero, indietreggerebbero ,abbasserebbero lo sguardo ingoiando il rospo e comincerebbero a raccontarmi le loro storie. Vogliono raccontare le loro storie. Vogliono condividerle. Vogliono poter dire, "Guarda, non commettere lo stesso errore che ho fatto io." Quello di cui hanno bisogno è un ambiente in cui poterlo fare. Quello di cui hanno bisogno è una cultura medica ridefinita. E si comincia con un medico alla volta.

Il medico ridefinito è umano, sa di essere umano, lo accetta, non è fiero di fare errori, ma si sforza di imparare da quello che è successo per poterlo insegnare a qualcun'altro. Condivide la sua esperienza con gli altri. È d'aiuto quando gli altri parlano dei propri errori. Ed evidenzia gli errori degli altri, non alla "ti ho beccato!", ma con affetto e sostegno perché tutti ne possano beneficiare. E lavora in una cultura medica che riconosce che gli esseri umani guidano il sistema, e quando gli esseri umani guidano il sistema, faranno errori di tanto in tanto. Così il sistema evolve per creare un sostegno che renda più facile identificare quegli errori che gli umani inevitabilmente commettono e incoraggi con affetto e sostegno ruoli in cui chi si occupa dell'osservazione nel sistema sanitario possa evidenziare ciò che può essere un potenziale errore e viene premiato per farlo, e in particolare persone come me, quando fanno errori, vengano premiate per venirne fuori.

Mi chiamo Brian Goldman sono un medico ridefinito. Sono umano. Faccio errori. Mi dispiace, ma mi sforzo di imparare una cosache posso trasmettere agli altri. Ancora non so cosa pensiate di me, ma posso conviverci.

 

E fatemi concludere con tre parole: Io mi ricordo.

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