Nell'affrontare le problematiche di fine vita, è importante considerare che in Italia si parla di una società multietnica e con tante culture differenti.L'approccio alla cura di pazienti di differente religione o cultura comporta un'apertura mentale da parte del personale sanitario che non può essere tralasciata nella formazione di tutte le persone coinvolte nella cura di un malato. Questo articolo, uscito nel 2006, evidenzia quanto è importante ascoltare e conoscere pazienti con esperienze,culture e credi religiosi differenti.Ricordiamoci che secondo i dati della Caritas, quasi il 10% della popolazione italiana è formata da immigrati con costumi ed abitudini molto lontarni dalla nostra esperienza di occidentali.
Fatima: quando i pazienti sono di un'altra cultura.
Terence G. Sparling
INTRODUZIONE
Quando iniziai la mia professione di oncologo 30 anni fa mi resi conto subito che conoscere perfettamente una particolare malattia non bastava. Era importante cercare un rapporto di fiducia con i pazienti in modo che fosse evidente che il loro medico era coinvolto direttamente nelle cure; questo atteggiamento permetteva non solo di fargli accettare trattamenti altrimenti difficili, ma rendeva più facile il mio lavoro in questo particolare settore della medicina. Molti sono i modi per ottenere e stabilire col paziente un rapporto di fiducia, la abilità ad raggiungere questo obiettivo facilita il successo nella nostra vita professionale. Queste modalità sono apprese da un buon medico quasi inconsciamente nel corso del tempo. Cio non vuol dire ricorrere ad uso di tecniche distaccate, al contrario l'impegno personale deve essere onesto e diretto e tutto ciò si apprende con il tempo e con molta esperienza. Ma quali sono le metodiche giuste per sviluppare questo rapporto di fiducia. Nella nostra cultura la fiducia si stabilisce con una stretta di mano, un colloquio prolungato ed esauriente, con il sorriso, lo studio dello sguardo e del linguaggio del corpo e sopratutto nell'affrontare con verità e realismo il problema.
Ad un certo punto della mia vita professionale mi sono trasferito per lavoro negli Emirati Arabi, immerso di colpo in un ambiente culturalmente totalmente differente dal mio, e sono stato costretto a rivedere profondamente le modalità da me apprese per creare il corretto rapporto di fiducia con i miei pazienti. Fatima fu una delle prime pazienti in questo nuovo paese. Trentenne, era già madre di sei figli, ed affetta da un tumore al seno. Si presentò nel mio studio con tre sorelle ed un fratello, il più anziano. Io avevo a disposizione un’infermiera e una traduttrice. Eravamo in otto nella stessa stanza.
“Chi di voi è Fatima?” chiesi? Le quattro sorelle, erano tutte vestite, in base al costume arabo, con un camicione nero ( Abaya),1 uno scialle per coprire la testa e una maschera facciale nera detta Burka2, oltre a guanti e calze neri, le sorelle erano tra loro indistinguibili. La visita avveniva in un ambiente con una temperatura di 48C° ed una umidità al 90%. Fu il fratello a rispondere, poiché nel mondo arabo è il maschio più anziano che decide in famiglia per ogni aspetto della vita familiare, ed è ritenuto responsabile per tutto quanto potrà accadere.“ Questa è Fatima” disse in arabo, all’interprete, “ Mia sorella non sa di avere un cancro e non deve saperlo. Le abbiamo detto che ha una infiammazione, a questo Lei, dottore si deve attenere”. Essi si aspettavano la mia partecipazione a questo sotterfugio. Tesi la mano a Fatima, che la ritrasse rapidamente. Nella cultura araba le donne in genere non stringono la mano, come appresi ripetutamente in seguito, per essere poi del tutto sorpreso la volta che inaspettatamente alcune lo fanno. Mi domandai a questo punto come poter rompere il ghiaccio. Non avevo ancora potuto vedere un centimetro quadrato della sua pelle, ne la potevo distinguere dalle sorelle. La pesante Abaya, non mi permetteva di intuire i suoi movimenti, ne potevo vedere il suo viso, o incontrare i suoi occhi per capire l'effetto prodotto dalle mie parole. Lo scambio di uno sguardo è considerato segno di complicità, dovevo evitare di offendere. Anche sfiorare la mano in un gesto rassicurante, puo' essere equivocato. Le “ trattative” ebbero inizio con il fratello maggiore, ( figura familiare alla quale era deputata la capacità decisionale) spesso più importante dello stesso marito, che in questo caso non era presente perchè avendo una seconda moglie era distaccato dalla situazione di Fatima. Questa situazione non è frequente, ma neppure rara come avrei appurato in seguito. Il paziente secondo i dettami della cultura araba, non è un essere autonomo, ma piuttosto una “ estensione” della famiglia allargata, con i suoi membri intimamente coinvolti, all’interno della quale si prendono le decisioni importanti. Fatima, non aveva alcuna possibilità di firmare un consenso o di discutere le eventuali terapie, come normalmente avviene nel mondo occidentale. Spesso visitando un nuovo paziente ho creduto di avere fatto tutto nel rispetto delle tradizioni, ma talvolta si presentava in un secondo tempo un fratello ancora piu' anziano, e poi il padre, e dovevo ricominciare tutto daccapo. Imparai cosi alla prima visita di chiedere sempre: “ Chi è il più anziano della famiglia?” I primi 20 minuti della conversazione furono impiegati per difendere la mia posizione nel non voler mentire alla paziente, ed il fratello si accontentò che prendessi l'impegno di non dirle nulla di particolarmente sconvolgente, che le potesse generare un senso di rassegnazione. Comunque non ero disposto a rinunciare al principio della onestà e della trasparenza. A differenza della precedente esperienza nel mondo occidentale, appresi che quest’approccio deve essere gestito con cautela secondo le circostanze e le necessità. A volte le negoziazioni sono lunghe e difficili, ma spesso se ne viene fuori spiegando che il loro congiunto deve potere avere fiducia, non soltanto nel medico, ma anche in tutti i suoi cari, per collaborare senza avere alcun dubbio che qualcosa di brutto gli sia stato nascosto. Molti pazienti nei paesi arabi ritengono che la diagnosi di cancro equivalga ad una sentenza di morte. In parte non posso dare loro torto se si considera che il 75% dei pazienti giunge all’attenzione medica in una fase avanzata della malattia. In queste circostanze è possibile solo offrire trattamenti palliativi. Dal loro punto di vista quest’approccio non è del tutto sbagliato se si pensa che in molti paesi la diagnosi di cancro coincide spesso con una sentenza di morte. Quando cominciai a visitare Fatima, avevo dietro le spalle suo fratello che la rassicurava. Mi fu permesso di vedere solo porzioni piccole del suo corpo in una modalità che definii “ furtiva ”. Non fu possibile utilizzare il tradizionale camice da ospedale. Riuscii solo “ “ stiracchiare” gli abiti quà e là per esaminare piccole porzioni del torace e dell'addome. Non parliamo poi del disagio quando ispezionai i linfonodi dell'inguine. Tutto questo con il suo volto sempre coperto. Solo dopo, a fiducia conquistata, ebbi il privilegio di vederlo.
“ Cosa sono queste lesioni?”esclamai nel visitarla Avevo trovato quattro ferite da ustione , una ancora non cicatrizzata sulla pelle al disopra del tumore.“E' il nostro trattamento tradizionale, Il cancro noi lo curiamo cosi'”rispose il fratello“. “Non sembra molto efficace. Forse possiamo provare qualcosa d’altro”risposi. Ancora una volta visitavo una paziente con una neoplasia in uno stadio avanzato. Raramente avveniva il contrario. La medicina preventiva, e l’assistenza medica in questo paese hanno solo 40 anni di vita; raramente i pazienti hanno un medico. Il sistema non è ancora in grado di rispondere alle esigenze sanitarie della popolazione. I programmi di screening e promozione della salute sono ancora limitati. Prima del 1965 non vi erano ancora ospedali specializzati ed i medici pochi. In questo contesto chiesi a Fatima dei precedenti controlli medici e mi fu risposto che ero il primo che la visitava. Ritornammo nella sala, e cominciai a spiegare a tutti il percorso terapeutico. Ma dovetti chiedere chi era Fatima, di nuovo vi erano quattro donne indistinguibili. Col tempo sarei poi diventato piu' bravo nel riconoscere Fatima anche se nascosta dal costume tradizionale. Dovetti affrontare con lei, ed altre pazienti, spesso analfabete, di 45 anni o piu' e, nel migliore dei casi con una qualche forma di istruzione( che comunque non offriva nozioni sul corpo umano e sulla salute), problemi come la chemioterapia di sostegno od un intervento di mastectomia, la radioterapia e le terapie ormonali prolungate. Non fu per niente semplice spiegare la situazione alla paziente per mezzo di un interprete, in una stanza piena di membri della famiglia. Fatima era molto preoccupata, pur avendo gia sei figli, di perdere la fertilità, valore importante nella loro cultura. Cercai quindi di affrontare il problema con termini semplici in ogni caso per l’ interprete di cultura araba, il termine cancro (seratan) era tabù. Non si poteva usare. Al suo posto si usa “ warum” parola generica per tumore che non implica necessariamente il concetto di cancro. Ho comunque insistito affinché lei usasse la parola “ seratan”. Pensavamo che al sentire pronunciare questo termine Fatima sarebbe crollata al suolo. Invece fu la sola a non essere ne sorpresa ne contrariata, anzi sembrò quasi sollevata. A distanza di un anno poi la traduttrice riconobbe che il metodo della chiarezza pagava. Avevo operato una conversione! Cominciai quindi ad affrontare gli eventuali effetti collaterali delle terapie: la calvizie e la neutropenia ( pochi globuli bianchi) o la possibilità dell'impianto di una protesi mammaria ricostruttiva. Fui stupito dal fatto che la paziente era preoccupata non tanto per se stessa, quanto, se si fosse saputo che lei aveva un tumore al seno, le figlie avrebbero avuto minori possibilità di maritarsi.
Le aspettative della famiglia erano comunque la completa guarigione della paziente. Dedicai molto tempo per fare comprendere la differenza tra riduzione del rischio e guarigione garantita. Erano delusi che io non potessi garantirla e forse pensavano che non fossi un bravo medico o che Allah non mi aveva ritenuto degno di ricevere le giuste informazioni. Ero consapevole del rischio che la disillusione avrebbe potuto condurre Fatima ed i suoi familiari di nuovo alle pratiche tradizionali: ustioni, rituali ed erbe varie. Altro problema fu il Ramadan3. Fatima riteneva che la somministrazione del trattamento durante le ore di luce potesse infrangere il digiuno. Chiese di aspettare un mese. Ma un mese di attesa era pericoloso. Allora si ricerco' nei precetti una dispensa per i giorni di terapia che sarebbero statti recuperati in futuro.
Ishallah, disse Fatima. Per me valeva OK per la prossima visita. Ma il lunedi' successivo, giorno dell' appuntamento,Fatima non si presentò., Non vi era nessuno in famiglia che la potesse accompagnare ( una donna sola non può uscire di casa )Venne il giorno dopo. Anche qui dovetti riadattare il modo di pensare. In occidente un appuntamento si tende a rispettarlo. Nel mondo islamico le valutazioni possono essere differenti.
“Inshallah” significa “ Se Dio vuole” e spesso indica consenso. Ora capisco che esso non significa impegno. Il concetto è che la cosa succederà, (solo) se Allah vuole. Ossia noi mortali non abbiamo nessun controllo sul destino. Questo elemento di fatalismo implica un differente approccio culturale sul concetto di responsabilità personale come la concepiamo noi occidentali. Alla fine delle nostre visita ora avevo la possibilità di lanciare un occhiata attraverso il suo velo, senza vedere il viso, e spesso, in contrasto con i costumi del luogo, ho incontrato i suoi occhi, molto attenti a quanto le avveniva attorno. In questo modo ho avuto la possibilità di creare un ponte discreto al di sopra delle differenti culture. Negli ultimi tempi ho scoperto Fatima come una dolce ed attenta madre dei suoi figli , una donna che affronta un male che mette a rischio la sua vita, con grande forza interiore a dispetto del fatto che è priva di tutti quei supporti presenti nel mondo occidentale. Fatima è una donna molto religiosa con una grande fede , come del resto quasi tutti gli altri pazienti, La loro fede li aiuta a portare avanti la battaglia contro il cancro, mentre il suo medico continua a cercare di portare aiuto senza mai dimenticare quanto si può imparare “dall’ascolto e dalla conoscenza ” dei pazienti.
“Inshallah”
1- L'abaya (عباءة) è un indumento femminile utilizzato nei paesi musulmani. Si tratta di un lungo camice nero di tessuto leggero che copre tutto il corpo eccetto la testa, i piedi e le mani.http://it.wikipedia.org/wiki/Abaya_(abbigliamento
2- Con la parola burqa (arabo برقع, burqaʿ), alcune volte scritta burka) si indica un capo d'abbigliamento tradizionale delle donne di alcuni paesi di religione islamica.http://it.wikipedia.org/wiki/Burqa
3- Il Ramadan detto anche il Digiuno (arabo: رمضان, ramaḍān) è, secondo il calendario musulmano, il nono mese dell'anno e ha una durata di 30 giorni. La parola, in arabo, significa "mese caldo", il che fa ritenere che un tempo (quando i mesi erano legati al ciclo solare) esso fosse un mese estivo. http://it.wikipedia.org/wiki/Ramadan