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È giusto allargare la possibilità di eutanasia anche ai malati in fase non terminale?

È con questo titolo che un articolo della rivista New Scientist del 20 luglio 2016 ha aperto un dibattito sulla possibilità di permettere l’eutanasia anche a pazienti non affetti da una malattia terminale.

Secondo quanto riferito dalla psichiatra Paulan Starcke, non è raro vedere pazienti con grave sofferenza mentale che cercano di togliersi la vita. In base alla sua esperienza, la dottoressa rivela che, in alcuni casi, dopo un’attenta discussione con il paziente, i suoi familiari e i medici, ha aiutato a morire alcuni malati psichiatrici.

La procedura prevede la preparazione di una dose letale tra sedativi e barbiturici che può essere somministrata per iniezione o per via orale.

La dottoressa assiste il proprio paziente fino al decesso e poi ne certifica la morte.

La psichiatra considera questa procedura un compito proprio della sua professione. Non a caso lavora in Olanda dove, come in Belgio e in Svizzera, il cosiddetto suicidio assistito è permesso anche per pazienti affetti da malattie non terminali che provocano un alto livello di sofferenza e tra queste è inclusa anche la sofferenza mentale.

Non tutti sono d’accordo con questa posizione. Infatti, secondo il dottor Stephen Brake dell’Associazione americana “Not dead yet” che si oppone al suicidio assistito, questo non è un atto compassionevole ma si tratta di “abbandono del paziente”.

In che modo i medici possono districarsi in questa problematica etica ?

Una malattia mentale che crea sofferenza può giustificare un suicidio assistito? O il ricorso a questa procedura in malati non terminali può rappresentare una china pericolosa?

La Svizzera è stato il primo Paese che, nel 1942, ha permesso il suicidio assistito ed in seguito è stata seguita da altri Paesi tra cui recentemente anche il Canada. In Gran Bretagna vi è ormai da tempo un movimento a favore della legalizzazione del suicidio assistito sebbene nel settembre scorso sia stata bocciata una proposta di legge di alto profilo. Negli Stati Uniti d’America invece ogni singolo Stato legifera su questo problema ed attualmente 5 Stati americani permettono il suicidio assistito e numerosi altri stanno prendendo in considerazione questa problematica. Secondo la maggior parte degli attivisti in Gran Bretagna e negli Stati Uniti d’America e come sostiene Sarah Wootton dell’Associazione inglese “Dignity in Dying”, il problema del suicidio assistito dovrebbe essere approvato in base alla decisione dei cittadini. Secondo un’indagine effettuata nel 2007, circa l’80% delle persone è favorevole al suicidio assistito per i malati in fase avanzata ma il 43% di questi non vuole estendere questa possibilità anche ai malati non terminali. Il dottor Drake sostiene che se permettessimo questa scelta anche ai malati con depressione, quale significato avrebbero tutte le campagne per la prevenzione del suicidio.

Invece, secondo la dottoressa Starcke permettere il suicidio assistito per alcune malattie psichiatriche non significa dover interrompere ogni sforzo per la prevenzione del suicidio perché soltanto una minoranza di richieste in questo campo vengono soddisfatte. Infatti negli anni 2012 e 2013 sulle 121 domande di persone affette da disturbi psicologici solo 6 furono prese in considerazione per un eventuale suicidio assistito nella clinica dove lavora la dottoressa.

Questa decisione non può mai essere presa con leggerezza ed in particolare gli psichiatri devono valutare attentamente se il paziente è mentalmente competente e se ha espresso da molto tempo il desiderio di morire e se non vi sono prospettive di trattamenti efficaci. In genere questi pazienti presentano più di una diagnosi psichiatrica che può includere depressione e disordine della personalità. “La sofferenza dovuta ad una malattia psichiatrica può essere altrettanto dirompente di quella secondaria ad una malattia psichica” sostiene la dottoressa Starcke. Ma perfino in questi casi, nonostante aumentino le campagne favorevoli a considerare le malattie psichiatriche causa di sofferenza quanto quelle fisiche, persistono alcune differenze importanti in questi due ambiti della Medicina. Infatti, a differenza di quanto si osserva nelle malattie fisiche non ci sono esami di sangue o accertamenti radiologici del cervello che possano permettere una diagnosi definitiva di una malattia psichiatrica. Inoltre le persone con disturbi mentali ricevono frequentemente diagnosi differenti in momenti vari della loro vita e nessuno sa con certezza se la diagnosi iniziale sia stata erronea o se con il tempo si sia in qualche modo modificata.

Se un paziente sta morendo per una neoplasia o per una patologia cardiaca, in genere i medici possono dare una previsione ragionevole circa il decorso della malattia e i tempi di sopravvivenza.

In Svizzera ci si può rivolgere all’organizzazione Dignitas che offre il suicidio assistito proprio perché questi pazienti hanno una patologia degenerativa che non dà loro alcuna speranza di miglioramento. Al contrario, la mente rappresenta ancora per la Medicina una “scatola nera”. Infatti, ancora non sappiamo esattamente come un disturbo mentale possa progredire. Negli Stati Uniti, l’Istituto Nazionale di Sanità ha affermato che l’intero sistema di classificazione delle malattie mentali è imperfetto e dovrebbe basarsi su un approccio più scientifico, in particolare approfondendo i settori di ricerca in campo genetico dei neurotrasmettitori con un attenzione particolare alle connessioni cerebrali. Il progetto lanciato dall’Istituto Nazionale Americano per approfondire le possibilità di miglioramento delle patologie mentali è comunque molto lontano da dare i primi risultati. Per tale motivo gli psichiatri che volessero prendere in considerazione il suicidio assistito dovrebbero considerare attentamente pazienti che presentano una sofferenza per la propria patologia cronica, che non ha risposto ai potenziali rimedi come gli antidepressivi o le terapie come l’elettroshock.

La dottoressa Starcke sostiene che qualcuno dei suoi pazienti, proprio perché non ha una malattia terminale può presentare un livello di sofferenza sicuramente peggiore poiché non ha davanti a sé un percorso chiaro. Anzi, si tratta di un percorso senza fine.

L’associazione Dignitas sostiene che per alcune persone avere la possibilità di ricorrere al suicidio assistito può aiutarle proprio a non procedere verso la soluzione finale. Può sembrare paradossale che per prevenire tentativi di suicidio sia necessario permettere il suicidio stesso. Infatti, se il paziente decide di andare avanti da solo, il suicidio assistito gli permette un “percorso guidato” che è molto differente rispetto a una morte violenta, solitaria e non programmata.

Il dottor Drake non è d’accordo e sostiene che questo tema è lo specchio di un atteggiamento egoistico da parte della società e, insieme a numerosi gruppi religiosi e ad alcuni gruppi di attivisti a favore della disabilità, si dichiara assolutamente contrario all’eutanasia e al suicidio assistito per persone che abbiano una patologia sia mentale che fisica. Essi sostengono che legalizzare il suicido assistito invia un preciso messaggio alle persone affette da disabilità, malati o anziani: che la loro esistenza sia priva di significato. Per loro invece le persone con malattie psichiatriche devono essere considerate come individui i cui diritti vanno protetti.

“Se si aiuta qualcuno a morire, io non riesco a considerare questo un aiuto” sostiene Denis Queen del ramo britannico dell’Associazione “Not Dead yet”. “Per noi questo significa difendere i diritti umani”. Perfino in Olanda, paese con attitudini liberali in questo campo, i due terzi dei medici mostrano difficoltà ad accettare il suicidio assistito per ragioni psichiatriche.

La dottoressa Starcke che lavora in una clinica chiamata “End of life” offre un secondo parere alle persone che, avendo fatto richiesta per suicidio assistito, non hanno trovato l’appoggio del loro medico o del loro psichiatra. Secondo la dottoressa, molti dei suoi colleghi non si trovano a proprio agio nel ricevere richieste di suicido assistito per motivi psichiatrici e quindi chiamano la clinica per permettere alle persone una giusta consulenza. È importante che i medici siano molto “trasparenti” su questa scelta perché altrimenti si rischia che il paziente inizi un percorso che alla fine può essere interrotto per il non appoggio da parte del medico curante per motivi morali.

Riportiamo il caso clinico descritto alla fine dell’articolo del New Scientist:

“Era inevitabile” questo il commento di un padre alla cui figlia fu garantita la possibilità di morire e che tuttora sostiene “che era la giusta decisione per lei”.

Così racconta il padre di Hellen, una donna olandese di circa 30 anni a cui fu garantita la scelta di ricorrere al suicidio assistito. Hellen aveva presentato numerosi problemi psichiatrici complessi, tra cui disordine della personalità, depressione, stress post-traumatico, a causa di una violenza sessuale subita all’età di 10 anni. Come sosteneva suo padre, Hellen era veramente infelice; aveva più volte cercato di tagliarsi le vene e il suo primo tentativo di suicidio risale a quando aveva 20 anni. Negli anni successivi, i tentativi di suicidio si sono ripetuti e più volte la Polizia l’aveva riportata a casa dopo l’ennesimo suicidio fallito. Il padre viveva nel terrore di quando la Polizia avrebbe bussato alla porta per dire che finalmente ci era riuscita.

Ad un certo punto Hellen ha cercato il suicidio assistito dopo aver provato numerose forme di trattamento: sostegno psicologico, farmaci antidepressivi, terapia elettroconvulsiva. Nessuna di queste aveva funzionato a lungo termine.

Hellen ha scelto di morire nella propria casa, in compagnia dei genitori, del fratello e della sorella. Un medico le aveva preparato una bevanda contenente barbiturici che lei bevve senza esitazione, con i familiari intorno, fino a quando il farmaco fece effetto; lei perse la coscienza dopo 5 minuti e smise di respirare dopo 20.

Secondo il padre questa è stata la scelta migliore, altrimenti avrebbe assistito ad ulteriori tentativi di suicidio.

“E’ vero che è tutto molto triste ma siamo concordi che fosse la scelta giusta per lei e siamo tutti felici che la sua sofferenza sia finita. Siamo riusciti a salutarla anche in queste difficili circostanze e soprattutto siamo contenti di averla supportata negli ultimi momenti.”

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