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Chi è immune al coronavirus?

Di seguito, un'intervista a Marc Lipsitch professore nei Dipartimenti di Epidemiologia e Immunologia e Malattie infettive di Harvard T.H. Chan School of Public Health, dove dirige anche il Center for Communicable Disease Dynamics.

Anche su questa domanda, le decisioni - che comportano grandi conseguenze- vengono prese sulla base di pochi dati.

Tra le molte incertezze che rimangono su Covid-19 vi è il modo in cui il sistema immunitario umano risponda alle infezioni e ciò che questo significhi per la diffusione della malattia. L'immunità dopo qualsiasi infezione può avere una durata per tutta la vita o essere quasi inesistente. Finora, tuttavia, sono disponibili solo i primi barlumi di dati sull'immunità al SARS-CoV-2, il coronavirus che causa Covid-19.

Cosa possono fare gli scienziati e coloro che debbono prendere le decisioni e che fanno affidamento sulla scienza per informare le politiche in una situazione del genere? L'approccio migliore è quello di costruire un modello concettuale - una serie di ipotesi su come potrebbe funzionare l'immunità - sulla base delle attuali conoscenze del sistema immunitario e delle informazioni sui virus correlati, e quindi individuare come ogni parte di quel modello potrebbe essere sbagliato, come si potrebbe saperlo e quali sarebbero le implicazioni. Successivamente, gli scienziati dovrebbero iniziare a lavorare per migliorare questa comprensione con l'osservazione e la sperimentazione.

Lo scenario ideale – cioè che una volta infettata, una persona sia completamente immune per tutta la sua vita - è corretto solo per un numero di infezioni. Il medico danese Peter Panum lo ha notoriamente scoperto per il morbillo quando ha visitato le Isole Faroe (tra Scozia e Islanda) durante un focolaio nel 1846 e ha scoperto che i residenti di età superiore ai 65 anni che erano quindi in vita durante un precedente focolaio nel 1781, erano protetti. Questa sorprendente osservazione ha contribuito a dare grande impulso ai campi dell'immunologia e dell'epidemiologia - e da allora, come in molte altre discipline, la comunità scientifica ha imparato che spesso le cose sono più complicate.

Un esempio di cosa voglia dire "più complicato" è proprio l'immunità ai coronavirus, un folto gruppo di virus che a volte salta dagli ospiti animali agli umani: SARS-CoV-2 è la terza maggiore epidemia di coronavirus che colpisce gli umani negli ultimi tempi, dopo lo scoppio della SARS del 2002 -3 e l'epidemia di MERS iniziata nel 2012.

Gran parte della nostra comprensione dell'immunità coronavirus non proviene dalla SARS o dalla MERS, che hanno infettato un numero relativamente piccolo di persone, ma dai coronavirus che si diffondono ogni anno causando infezioni respiratorie che vanno dal comune raffreddore alla polmonite. In due studi separati, i ricercatori hanno infettato i volontari umani con un coronavirus stagionale e circa un anno dopo li hanno inoculati con lo stesso o un virus simile per osservare se avessero acquisito l'immunità.

Nel primo studio, i ricercatori hanno selezionato 18 volontari che hanno sviluppato il raffreddore dopo essere stati inoculati - o "sfidati", come si dice - con un ceppo di coronavirus nel 1977 o 1978. Sei soggetti sono stati nuovamente inoculati un anno dopo con stesso ceppo, e nessuno è stato infettato, presumibilmente grazie alla protezione acquisita con la loro risposta immunitaria alla prima infezione. Gli altri 12 volontari sono stati esposti a un ceppo leggermente diverso di coronavirus un anno dopo, e la loro protezione è risultata solo parziale.

In un altro studio pubblicato nel 1990, 15 volontari sono stati inoculati con un coronavirus; 10 di loro sono stati infettati. Quattordici sono tornati per un'altra inoculazione con lo stesso ceppo un anno dopo: hanno mostrato sintomi meno gravi e il loro corpo ha prodotto meno virus rispetto alla sfida iniziale, specialmente quelli che la prima volta avevano mostrato una forte risposta immunitaria.

Non sono stati condotti tali esperimenti su umani per studiare l'immunità alla SARS e alla MERS. Ma i dosaggi degli anticorpi nel sangue delle persone sopravvissute a tali infezioni suggeriscono che queste difese persistano per qualche tempo: due anni per la SARS, secondo uno studio, e quasi tre anni per la MERS, secondo un altro. Tuttavia, la capacità di neutralizzazione di questi anticorpi - una misura di quanto inibiscono la replicazione del virus - era già in declino durante i periodi di studio.

Questi studi costituiscono la base per un'ipotesi plausibile su cosa potrebbe accadere con i pazienti Covid-19. Dopo essere stato infettato da SARS-CoV-2, la maggior parte degli individui avrà una risposta immunitaria, alcuni meglio di altri. Si può presumere che tale risposta offrirà una certa protezione a medio termine - almeno un anno - e quindi la sua efficacia potrebbe diminuire.

Altre prove supportano questo modello. Un recente studio sottoposto a peer-review (peer review, in italiano “revisione paritaria”, è una procedura di selezione di articoli, proposti da membri della comunità scientifica, eseguita da specialisti nell'ambito in questione ) condotto da un team dell'Università Erasmus, nei Paesi Bassi, ha pubblicato i dati di 12 pazienti che dimostrano di aver sviluppato anticorpi dopo l'infezione da SARS-CoV-2. Molti dei miei colleghi e studenti ed io abbiamo analizzato statisticamente migliaia di casi stagionali di coronavirus negli Stati Uniti e abbiamo utilizzato un modello matematico per dedurre che l'immunità nell'arco di un anno circa è probabile per i due coronavirus stagionali più strettamente correlati alla SARS-CoV-2 - un'indicazione forse di come potrebbe comportarsi anche l'immunità alla stessa SARS-CoV-2.

Se è vero che l'infezione crea immunità nella maggior parte o in tutti gli individui e che la protezione dura un anno o più, l'infezione di un numero crescente di persone in una determinata popolazione porterà all'accumulo della cosiddetta immunità da gregge. Man mano che sempre più persone diventano immuni al virus, un individuo infetto ha sempre meno possibilità di entrare in contatto con una persona suscettibile alle infezioni. Alla fine, l'immunità da gregge diventa sufficientemente pervasiva a che una persona infetta in media infetti meno di un'altra persona; a quel punto, il numero di casi inizia a diminuire. Se l'immunità da gregge è abbastanza diffusa, allora anche in assenza di misure progettate per rallentare la trasmissione, il virus sarà contenuto - almeno fino a quando l'immunità non diminuirà o siano nate abbastanza nuove persone suscettibili all'infezione.

Al momento, i casi di Covid-19 sono stati sottostimati a causa di test limitati, forse con un fattore 10 in alcuni luoghi, come l'Italia alla fine del mese scorso. Se la sottostima fosse intorno a questo livello anche in altri paesi, allora la maggior parte della popolazione in gran parte (se non in tutto) del mondo è ancora suscettibile alle infezioni e l'immunità da gregge è un fenomeno non rilevante in questo momento. Il controllo a lungo termine del virus dipende dal fatto che la maggioranza delle persone diventi immune, attraverso l'infezione e la guarigione o attraverso la vaccinazione - quanta sia poi questa maggioranza dipende da altri parametri dell'infezione che sono ancora sconosciuti.

Una preoccupazione riguarda la possibilità di reinfezione. I Centri della Corea del Sud per il controllo e la prevenzione delle malattie hanno recentemente riferito che 91 pazienti che erano stati infettati con SARS-CoV-2 e che poi erano risultati negativi per il virus si sono successivamente rivelati nuovamente positivi. Se alcuni di questi casi fossero effettivamente reinfezioni, metterebbero in dubbio la forza dell'immunità che i pazienti avevano sviluppato.

Una possibilità alternativa, che molti scienziati ritengono sia più probabile, è che questi pazienti abbiano avuto un test falso negativo nel mezzo di un'infezione in corso, o che l'infezione si fosse temporaneamente attenuata e poi riemersa. Il C.D.C. della Corea del Sud sta ora lavorando per valutare il valore di tutte queste spiegazioni. Come con altre malattie per le quali può essere difficile distinguere una nuova infezione da una nuova riacutizzazione di una vecchia infezione – ad esempio la tubercolosi - il problema potrebbe essere risolto confrontando la sequenza del genoma virale tra il primo e il secondo periodo di infezione.

Per ora, è ragionevole supporre che solo una minoranza della popolazione mondiale sia immune alla SARS-CoV-2, anche nelle aree colpite duramente. Come potrebbe evolversi questo quadro provvisorio con l'arrivo di dati più consolidati? I primi segni suggeriscono che potrebbe cambiare in una direzione o nell’altra.

È possibile che si siano verificati molti più casi di Covid-19 rispetto a quanto riportato, anche dopo aver tenuto conto di test limitati. Uno studio recente (non ancora sottoposto a revisione paritaria) suggerisce piuttosto che, diciamo, 10 volte il numero di casi rilevati, gli Stati Uniti potrebbero davvero avere più di 100, o addirittura 1.000, volte il numero ufficiale. Questa stima è un'inferenza indiretta da correlazioni statistiche. In caso di emergenza, tali valutazioni indirette possono essere la prova precoce di una scoperta importante o una stranezza statistica. Ma se questo è corretto, l'immunità da gregge verso SARS-CoV-2 potrebbe aumentare più rapidamente di quanto suggeriscano le cifre comunemente riportate.

Inoltre, un altro recente studio (anch'esso non ancora sottoposto a revisione paritaria) suggerisce che non tutti i casi di infezione possono contribuire all'immunità da gregge. Dei 175 pazienti cinesi con lievi sintomi di Covid-19, il 70 percento ha sviluppato forti risposte anticorpali, ma circa il 25 percento ha sviluppato una risposta bassa e circa il 5 percento non ha sviluppato alcuna risposta rilevabile. La malattia lieve, in altre parole, potrebbe non costituire sempre una protezione. Allo stesso modo, sarà importante studiare le risposte immunitarie delle persone con casi asintomatici di infezione da SARS-CoV-2 per determinare se i sintomi e la loro gravità siano predittivi dell’immunità.

L'equilibrio tra queste incertezze diventerà più chiaro quando più sondaggi sierologici o esami del sangue per anticorpi saranno condotti su un gran numero di persone. Tali studi stanno iniziando e dovrebbero mostrare presto i risultati. Naturalmente, molto dipenderà da quanto siano sensibili e specifici i vari test, cioè quanto bene individuino gli anticorpi SARS-CoV-2 quando sono presenti e se possano non essere influenzati da segnali spuri dagli anticorpi ai virus correlati.

Ancora più stimolante sarà capire cosa significa una risposta immunitaria rispetto al rischio per un individuo di essere infettato e alla sua contagiosità verso gli altri. Sulla base degli esperimenti volontari con coronavirus stagionali e degli studi sulla persistenza degli anticorpi per SARS e MERS, ci si potrebbe aspettare una forte risposta immunitaria alla SARS-CoV-2 per proteggere completamente dalla reinfezione e una più debole per proteggere dalle infezioni gravi e così rallentare la diffusione del virus.

Ma progettare validi studi epidemiologici per capire tutto questo non è facile - molti scienziati, tra cui diversi team di cui faccio parte - stanno lavorando sulla questione in questo momento. Una difficoltà è che le persone con un'infezione precedente potrebbero differire dalle persone che non sono state ancora infettate in molti altri modi che potrebbero alterare il loro rischio futuro di infezione. Analizzare il ruolo della precedente esposizione da altri fattori di rischio è un esempio del classico problema che gli epidemiologi chiamano "confusione" - ed è reso oggi esasperante dalle condizioni in rapida evoluzione della pandemia di SARS-CoV-2 ancora in espansione.

Eppure, riuscire a comprendere rapidamente è estremamente importante: non solo per stimare l'estensione dell'immunità da gregge , ma anche per capire se alcune persone possano rientrare nella società in modo sicuro, senza essere nuovamente infette o servire come vettori e diffondere il virus ad altri. Al centro di questo sforzo sarà capire per quanto tempo dura la protezione.

Con il tempo, anche altri aspetti dell'immunità diventeranno più chiari. Prove sperimentali e statistiche suggeriscono che l'infezione con un coronavirus può offrire un certo grado di immunità contro coronavirus diversi ma correlati. Se alcune persone abbiano un rischio maggiore o minore di infezione da SARS-CoV-2 a causa di una precedente storia di esposizione a coronavirus è una domanda aperta.

E poi c'è la questione del potenziamento immunitario: attraverso una varietà di meccanismi, l'immunità a un coronavirus può in alcuni casi esacerbare un'infezione piuttosto che prevenirla o mitigarla. Questo fastidioso fenomeno è meglio conosciuto in un altro gruppo di virus, i flavivirus che sono patogeni per l’uomo, e può spiegare perché la somministrazione di un vaccino contro la febbre di Dengue, un'infezione da flavivirus, a volte può peggiorare la malattia.

Tali meccanismi sono ancora allo studio per i coronavirus, ma la preoccupazione che essi possano essere in gioco è uno degli ostacoli che hanno rallentato lo sviluppo di vaccini sperimentali contro la SARS e la MERS. La protezione contro il potenziamento sarà anche una delle maggiori sfide per gli scienziati che stanno cercando di sviluppare vaccini per Covid-19. La buona notizia è che la ricerca su SARS e MERS ha iniziato a chiarire come funziona il potenziamento, suggerendo modi per aggirarlo, e sono in corso una serie straordinaria di sforzi per trovare un vaccino per Covid-19, usando approcci multipli.

Sono necessarie ulteriori ricerche scientifiche su quasi ogni aspetto di questo nuovo virus, ma in questa pandemia, come con le precedenti, devono essere prese decisioni con grandi conseguenze prima che i dati definitivi siano disponibili. Data questa urgenza, il metodo scientifico tradizionale - formulare ipotesi informate e testarle con esperimenti e un'attenta epidemiologia - è iper-accelerato. Data l'attenzione del pubblico, quest'opera è insolitamente esposta. In queste difficili circostanze, posso solo sperare che questo articolo sembri obsoleto molto presto - tanto più presto si scoprirà molto di più sul coronavirus di quanto si sappia al momento.

Marc Lipsitch (@mlipsitch) è professore nei Dipartimenti di Epidemiologia e Immunologia e Malattie infettive di Harvard T.H. Chan School of Public Health, dove dirige anche il Center for Communicable Disease Dynamics.

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